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La penitenza in Francesco d’Assisi

di CHIARA FRUGONI (*)

Francesco e Chiara con i primi compagni e compagne, secondo un progetto innovativo che il santo da subito pensò aperto ad uomini e donne (e che assegnava una parte attiva e importante ai laici), decisero di applicare radicalmente il Vangelo e si proposero di seguire le orme del Redentore, di Maria, dei primi discepoli. Donarono la loro vita al servizio degli altri per ricordare ai cristiani dimentichi il precetto: "Ama il prossimo tuo come te stesso" (Matteo 22,36-409), esortandoli alla pace e ad una totale rigenerazione.
 


Per amare bisogna innanzitutto mettersi dalla parte degli altri. Francesco nel suo Testamento, quando ricapitolò in poche e dense frasi la sua vita, vide nell'incontro con i lebbrosi il momento decisivo del cambiamento: fu quando quando riuscì a immedesimarsi nel loro sconforto ed abbruttimento, quando riuscì a scorgere dietro gli stracci e il fetore di quegli infelici la loro umanità disperata: erano suoi fratelli, fratelli di Cristo, figli tutti di Dio. Scrisse allora: “Il Signore dette a me, Francesco, di cominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza”.

Oggi "fare penitenza" significa comunemente compiere un'opera di automortificazione, come astenersi dal cibo o dai divertimenti, oppure infliggersi qualche sofferenza corporale o recitare un certo numero di preghiere dopo la confessione per espiare le colpe dei peccati commessi. Non è questo il significato nella Bibbia e nel modo di esprimersi di Francesco, che non intese neppure mai proporre una vita ascetica ai compagni, decisamente contrario a digiuni estenuanti o all'uso di cilici e catene. Prescriveva invece ai compagni equilibrio nel soddisfare le necessità del nutrimento e del riposo, per non fare protestare "fratello corpo"; privato dell'occorrente non avrebbe potuto resistere a lungo nell'orazione o compiere altre opere buone.

Nella versione greca dell'Antico Testamento o dei Settanta, così come nei Vangeli, giunti a noi in greco, l'atteggiamento richiesto all'uomo per ottenere il perdono dei propri peccati è indicato con la parola metànoia, che la Vulgata traduce in latino sia con paenitentia che conversio: tre termini dunque con lo stesso significato. In greco metànoia significa "la mutazione di una persuasione, di una attitudine o di un disegno abbracciato anteriormente" o anche il dispiacere per il proprio comportamento precedente. Per questo Giovanni Battista ordinò che i neo-battezzati facessero "frutti degni della penitenza", cioè "coerenti azioni di cambiamento", frutti che il profeta esemplificò in un diverso modo di comportarsi: i subalterni degli appaltatori delle imposte, i pubblicani, non dovevano più aumentarle arbitrariamente e i militari dovevano desistere dal vessare e denunziare falsamente le persone (Luca 3, 8-14).
 
"Cominciare a fare penitenza" implicò per Francesco la scoperta di una fratellanza con tutti gli uomini, perché tutti figli di Dio, anche con quelli, come i lebbrosi, che il mondo ignorava e non riteneva degni di compassione, non facendosi carico in alcun modo del loro dolore. Di conseguenza, a questi poveri malati si schiudeva la possibilità di tornare a fare parte del consorzio umano. "Usare misericordia" con i lebbrosi fu per Francesco il momento definitivo e capitale della conversione: significò non agire più secondo rapporti di forza, di prestigio e di ricchezza, ma secondo sentimenti di solidarietà e compassione.

Francesco riteneva che Dio avesse chiesto non solo ai cristiani ma a tutti, fedeli ed infedeli, di "fare penitenza" nel senso appena delineato e con questa convinzione, durante la quinta crociata, lasciò Assisi e si diresse in Egitto dove era l'esercito crociato. Non dobbiamo meravigliarci perciò che il primo biografo di Francesco, Tommaso da Celano, affermò che il santo voleva predicare ai musulmani e agli altri infedeli la fede cristiana e la penitenza. Francesco intendeva chiedere a musulmani ed infedeli un profondo rivolgimento interiore, di sentirsi tutti insieme fratelli, fra di loro e con i cristiani, come Francesco si sentiva con i musulmani e con i suoi frati, come desiderava sentirsi con tutti gli altri uomini che incontrava, seguendo le orme di Cristo, perché tutti, fedeli ed infedeli, potessero godere del dono di Dio di raggiungere la salvezza eterna.

Andrà sottolineato anche che Francesco per tutta la vita cercò di trovare ciò che univa le persone, non quello che le divideva. Il santo, ad esempio, copiò alcune abitudini della religione islamica. Fu molto colpito dalla preghiera dei muezzin; su quel ricordo, tornato in patria, chiese che fosse esemplata la preghiera dei cristiani quando lodavano Dio. Scrisse ai frati: "E riguardo alla lode di Cristo, a tutte le genti dovete annunciare e predicare questo, che ad ogni "ora" e quando suonano le campane, sempre da tutto il popolo siano rese lodi e grazie a Dio onnipotente per tutta la terra".

Francesco spinse la comprensione dell'altro estendendola fino al mondo animale. Il santo aveva ben presente che nel mondo appena creato, vegetariano ed armonico, voluto da Dio con un atto d'amore, dove anche le belve mangiavano erbe verdi (Genesi 1,30), i progenitori avevano prodotto uno sconvolgimento profondissimo, introducendo con il loro peccato anche la violenza e la morte.
Francesco però era consapevole che il peccato di Adamo ed Eva era ricaduto sui loro discendenti, di generazione in generazione fino a giungere a lui stesso - anche se la croce di Cristo aveva offerto agli uomini la possibilità di una loro redenzione -, ma era consapevole che tale trasgressione avesse turbato non soltanto l'uomo ma l'intero creato, mutando gli animali da pacifici ad aggressivi e carnivori.

Lo sguardo compassionevole di Francesco si posa perciò anche sugli animali feroci, di cui intende le ragioni. Nel famoso Fioretto del Lupo di Gubbio, Francesco propone "un patto di pace", ma riesce a mettersi dalla parte del lupo, nel momento in cui fa concludere un accordo fra la temibile bestia, che tuttavia viene apostrofata, con affetto solidale come: "Frate" lupo", e gli abitanti della città: "Frate lupo, poiché ti piace di fare e tenere questa pace, io ti prometto ch'io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male".

Francesco riconosce le ragioni di un animale, carnivoro per natura, non per crudeltà o ferocia. Gli chiede di non divorare più né bestie né uomini, ma nello stesso tempo gli assicura che sarà per sempre nutrito dagli abitanti secondo i suoi bisogni. Noi siamo abituati ad un approccio ecologico; nel Medioevo invece, di fronte ad un gregge decimato, si poteva giungere addirittura a processare il lupo e ad impiccarlo, proprio come fosse un uomo.

Guardiamo l'incantevole dipinto di Stefano di Giovanni di Consolo da Cortona detto il Sassetta, S. Francesco e il lupo di Gubbio (1437-44), conservato alla National Gallery di Londra. Donne e fanciulle che hanno paura, si affacciano dall'alto delle mura merlate, e osservano quello che sta succedendo al di là della porta. I frati e i cittadini più autorevoli sono vicino a Francesco e assistono sbalorditi al miracolo. Il santo ha preso la zampa del lupo e gliela stringe, come fosse una mano, in un patto preciso. A scanso di incomprensioni, un notaio sta mettendo per iscritto i termini dell'accordo, del santo e della bestia, che dunque gli abitanti di Gubbio dovranno rispettare, come fosse uno di loro, nelle richieste e nei diritti. Nel cielo chiarissimo un drappelletto di uccelli disegna una curva leggera, che fa piacere guardare: il dramma è superato, tutto sta volgendo al meglio. Quelle membra mozzate che si intravvedono, lontano, sul prato verde, appartengono al passato. Il lupo è un carnivoro, non è cattivo: è stato creato così. E anche lui ha diritto di mangiare: i cittadini perciò devono preoccuparsi dei suoi pasti che non possono essere a base di fieno!

Chi era veramente questo terribile lupo? Un reale animale feroce? O allude invece ad un ladrone del tutto umano, particolarmente spietato? Entrambe le ipotesi sono possibili. Quello che importa tenere presente è la riflessione che san Francesco ci permette di compiere. Prima di giudicare e di condannare, bisogna comprendere e venire incontro ai bisogni dell'altro. Non è neppure essenziale discutere l'autenticità della fonte; occorre invece sottolineare come il Fioretto interpreti in modo semplice e penetrante la capacità di ascolto da parte di Francesco, perfino delle ragioni di un terribile lupo.
Francesco si spinge ancora oltre, nella richiesta di comprensione, chiedendo ai suoi frati di perdonare chi avesse fatto loro un torto: è un'altro aspetto del dono della misericordia, della capacità di amare "il prossimo tuo come te stesso".

Nella bellissima Lettera ad un ministro angustiato per il difficile rapporto con i confratelli, Francesco esorta quel superiore, desideroso di allontanarsi dalla sua comunità che tanto lo fa soffrire, desideroso di isolarsi nella pace e nel silenzio di un eremo, a scegliere invece un'altra stada. «Ama coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro, se non ciò che il Signore ti darà. In conclusione, oggi, la lezione di Francesco potrebbe essere questa: non basta andare in chiesa, fare opere di bene ed elemosine, se si agisce solo per se stessi, ogni volta ricavando un largo autocompiacimento nel misurare quanto siano buoni i propri sentimenti. Senza uno slancio autonomo di solidarietà verso gli altri, senza provare compassione, è impossibile capire il messaggio essenziale del Vangelo: "Ama il prossimo tuo come te stesso".

(*)medievalista

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